Durante la prima fase della quarantena ciascuno di noi si è ritrovato ad affrontare qualcosa di completamente nuovo, che ci ha messo di fronte ad alcune verità da sempre presenti, ma che per determinati motivi rimanevano sopite.
Penso che parte della mia esistenza di vita pre-lockdown si possa riassumere con due parole: eclettismo e abitudinarietà. Sembrano due parole in contrasto, ma dal mio punto di vista hanno perfettamente senso: da un lato ci sono i miei numerosi interessi, che con il corso del tempo sono diventati la mia fonte di sostentamento (e che sono riuscita a collegare l’uno all’altro), e dall’altra parte c’è il mio bisogno di strutturare il mio tempo in modo abitudinario, con orari precisi e possibilmente ripetitivi. Questo secondo punto è il mio modo di contrastare un lato del carattere terribilmente pigro, che potrebbe subentrare qualora non ci fossero degli appuntamenti fissi.
All’interno di questa struttura abitudinaria ed eclettica subentra il tempo libero.
Forse per il caleidoscopio di attività con cui organizzo la giornata, quando questo famigerato tempo libero arriva sono troppo stordita per godermelo appieno, preferendo delle attività più passive a quelle che possano realmente alimentare, incuriosire, stupire un essere umano.
Poi c’è stato il lockdown. Giorni in cui tutte le attività a cui ero abituata, le persone con cui mi incontravo per lavorare, le piccole allieve di danza o gli allievi di yoga non c’erano più. Il mio lavoro andava riorganizzato e tutti siamo stati costretti a modificare parte delle nostre abitudini. C’è stata qualche occasione di smartworking, ma di fatto la maggior parte del mio tempo, di quello che mi si prospettava davanti (e non ne sapevo la durata) era libero. Ora, per quanto la visione dell’intera produzione mondiale cinematografica e di serie tv possa essere capace di ricoprire almeno dieci anni di tempo (forse di più), mi è stato evidente sin da subito che tutto quel tempo libero non potesse essere “usato” in questo modo. Del resto non c’erano attività lavorative che mi “stordissero”. Qualcosa nel profondo cominciava a farsi sentire, una voce sopita che scatenava un prurito a cui in quel momento potevo veramente fare caso: il bisogno creativo richiamava la mia attenzione.
All’inizio non ci potevo credere: come era possibile che la mia creatività avesse bisogno di essere ascoltata, quando attraverso la danza e il teatro, le performance, le coreografie per le allieve, già aveva degli ottimi canali di espressione? Come si permetteva di recriminarmi che le avessi dato poco spazio? Nonostante fossi offesa con me stessa per questa presa di posizione del mio lato creativo, ho avuto la buona idea di fermarmi (del resto eravamo tutti fermi) e ascoltare attentamente quello che mi si stava chiedendo invece di assillarlo con giudizi o domande. Risultato? Ogni giorno mi sono semplicemente dedicata a quello che sentivo di fare e arrivavo alla fine della giornata di buon umore, avendo imparato qualcosa di nuovo. Ho assecondato quel bisogno di creatività che non aveva niente a che fare con l’espressione emotiva o performativa, ma con l’umano bisogno di creare con le proprie mani, di plasmare ed alimentare così la propria anima. Questo mi ha fatto donare molta energia che in qualche modo l’universo mi ha sempre rimandato indietro.
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